La moda non riflette solo la cultura: è una miccia che accende conversazioni, rompe silenzi e scuote coscienze. Non è un caso se Vivienne Westwood ha portato il punk dalle strade alle passerelle, o se Alexander McQueen ha riscritto, abito dopo abito, il modo in cui guardiamo alle donne.
Quando il brand spagnolo Desigual ha lanciato la campagna “Not a Doll” con l’attrice Ester Expósito, sembrava un colpo ben assestato: un messaggio forte e chiaro contro l’oggettificazione del corpo femminile.
Ma c’è un dettaglio che ha fatto rumore: la parola “doll” non ha lo stesso significato per tutti. Quello che per alcuni è un simbolo di oppressione, per altri è un’espressione di potere.
La domanda sorge spontanea: come possono convivere questi due significati? E cosa c’entrano i diritti delle persone transgender? Abbiamo scavato dentro la parola e scoperto che ha molto più da dire di quanto sembri.
Insulto o identità?
Nella cultura mainstream, chiamare una donna “doll” o “bambola” significa quasi sempre ridurla a qualcosa di puramente decorativo. Elegante, ma muta. Una persona ridotta a oggetto da guardare, non persona da ascoltare. In breve: male gaze.
Entrando in contesti queer e transfemminili, la storia cambia. Nella ballroom culture, resa immortale da Paris is Burningo rappresentata in Pose, la doll è aspirazione, affermazione, identità. Tra le donne transgender, soprattutto quelle nere o latine, porta con sé orgoglio, riconoscimento reciproco e sorellanza. Diventa celebrazione, non diminuzione.
Ester Exposito x Desigual
La campagna Desigual e il tempismo sbagliato
Desigual si oppone agli stereotipi della donna bionda, bella ma stupida. La loro maglietta bianca con scritta nera parla da sé: le donne non esistono per essere guardate, e vogliono farsi sentire. Messaggio giusto, momento sbagliato.
Questo perché poco prima lo stilista Conner Ives, In risposta alle crescenti leggi anti-trans nel Regno Unito e negli Stati Uniti, ha creato una maglietta con la scritta “Protect the Dolls”. Il ricavato delle vendite va a Trans Lifeline, un’organizzazione statunitense guidata da persone transgender. Stessa idea visiva: maglietta bianca, scritta nera. Ma qui il messaggio è proteggiamo chi si definisce “doll” con orgoglio. Celebrità come Pedro Pascal e Tilda Swinton hanno subito aderito alla causa, passando per tantissimi non VIP.
Quando i messaggi di empowerment si sovrappongono
Conner Ives e Desigual parlano entrambi di identità, ma da prospettive diverse. Uno dice: basta chiamare le donne bambole. L’altro dice: essere una doll significa sopravvivenza, bellezza e forza. Il problema? Il messaggio di Ives era già diventato virale.
E quando Desigual ha lanciato la sua versione, in molti ci hanno visto una risposta stonata, persino dannosa. Alcuni l’hanno letta come una frecciata contro la comunità LGBTQ+, altri come un’incredibile mancanza di sensibilità in un momento storico delicato. Il dibattito è esploso.
il cantante Troye Sivan via Conner Ives su Instagram
Cosa succede quando i brand commettono errori culturali?
Le aziende che operano a livello globale vogliono e devono rimanere in sintonia con il pubblico di culture diverse per capirne le sensibilità. Ma non è la prima volta che un brand inciampa sul terreno scivoloso delle differenze culturali. Dolce & Gabbana ha indignato il suo pubblico cinese con una pubblicità in cui una modella asiatica faticava a mangiare spaghetti con le bacchette, arrivando al boicottaggio in Cina. Gucci e Prada, dopo lo strafalcione con maglioni e statuine accusati di blackface, hanno introdotto iniziative per la diversità e l’inclusione. Comme des Garçons ha appropriato le treccine afro, Burberry ha presentato una felpa con cappio… la lista è lunga. I brand perdono la fiducia del pubblico e di conseguenza il business.
Un invito alla sensibilità culturale
La cultura è viva, mutevole, e il linguaggio ne è il cuore pulsante. La diversità culturale implica che i significati cambiano a seconda del contesto e del luogo. Ciò che oggi è empowerment, domani può risultare offensivo. Ciò che è accettabile in uno spazio può non esserlo in un altro. Anche con buone intenzioni, i brand che trascurano i cambiamenti culturali rischiano di mancare il bersaglio. Bisogna essere aggiornati e, soprattutto, consapevoli dell’impatto che ha un messaggio, non solo delle intenzioni. Bisogna ascoltare.
Noi di Maka facciamo proprio questo: rimaniamo sintonizzati su come le parole vengono percepite, su come i significati cambiano e su come la cultura si manifesta nel linguaggio. Crediamo nell’inclusione, e supportiamo brand e aziende: attraverso transcreation, localizzazione e programmi di DEI. Accompagniamo nei contesti culturali, spiegando non solo cosa dire, ma anche come, quando e perché dirlo.
Perché una parola può accendere una campagna. O distruggere una reputazione.
E i brand che sanno ascoltare sono quelli che lasciano il segno.